L’amara terra di Mario Perrotta

Collaborare con un artista è un privilegio. E ogni volta che mi domando chi me lo fa fare di occupare il tempo – tempo che non ho lavorando per l’Archivio dei diari – seguendo i progetti e le produzioni di Mario Perrotta, mi basta pensare alle emozioni che ho provato in certi particolari momenti della mia collaborazione professionale con lui ed ecco che trovo il bandolo e il senso. Mi basta ricordarli quei momenti, per commuovermi e capire perché sono irrinunciabili.

Lasciando il Salento, il ricordo più emozionante di Versoterra, un progetto folle, visionario come e più di Bassa continua, è il momento preciso che ho vissuto con centinaia di persone nella corte del Castello Carlo V, quando Mario Perrotta, alla fine del suo live di Emigranti Espress in tre mattine, ha dedicato alla sua terra un’invettiva che era anche dichiarazione di amore eterno, viscerale, di quell’amore irrazionale che affonda le sue radici nella carne. Ha dato le spalle al pubblico piangendo, e noi con lui. Un colpo dritto al cuore, nello spazio dove si annidano i ricordi indelebili.

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Questo momento, questo capitolo della sua storia di emigrante, e poi quel bimbo africano che gli è corso incontro per abbracciare forte il suo papà e consolarlo, hanno racchiuso tutto il senso e l’urgenza drammaturgica di un progetto bellissimo che poteva essere realizzato solo qui e ora. In questa terra, in questi mari, in questa epoca.

Se il compito dell’arte è costringere le persone a pensare contribuendo a creare un popolo di “non indifferenti”, il teatro di Mario Perrotta lo assolve in pieno, che sia un monologo con lui piantato su una sedia in mezzo a un palco o un viaggio da mare a mare nel lembo d’Italia che è diventato meta ambita del turismo di massa. Quel Salento che fino a qualche decennio fa era “uno sputazzo di terra” da abbandonare per cercare lavoro e miglior fortuna, come racconta lo stesso Perrotta nei suoi spettacoli e come lui stesso ha fatto per poter diventare l’artista che oggi è. Non solo un regista, non solo un drammaturgo, non solo un attore.

Ecco allora che Versoterra, da progetto completo, non usa linguaggi multiformi come il teatro, la musica, la danza, il videomapping e luoghi suggestivi per collezionare colpi di scena e stupire. Si serve dei luoghi come partiture narrative e inizia mettendo in scena all’alba un ammasso di gente che sbarca veramente sulla costa a San Foca davanti all’ex Cpt Regina Pacis. Persone senza identità che piano a piano vengono disvelate nelle loro intenzioni non edificanti, specchio dei nostri bisogni, come racconta lo scafista Ippolito Chiarello al quale Perrotta ha affidato la regia dei percorsi corali da una costa all’altra. Il fantasma di memoria del Regina Pacis sembra vomitarci addosso il dolore di chi in quella prigione è stato recluso, come raccontano Bobby e Somieh che lì dentro ci sono finiti davvero, mentre coltivavano il sogno di diventare artisti in Italia. E qui, signori “non è più spettacolo”.

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Gli stessi personaggi approdati con un sogno e finiti a esaudire un bisogno, li ritroviamo a Porto Selvaggio in una galleria dentro la quale il pubblico in processione segue Chiarello e i musici. Il bestiario esposto con tanto di scritta in latino è lo specchio delle nostre necessità. Ci sono poi quelli che non si sono adeguati e stanno appesi, figli di nessuno, sospesi fra un qui e un altrove, incapaci di restare, impossibilitati a tornare, richiedenti asilo.

Il coro di migranti attratto e respinto dal mare finisce là la sua corsa, sulla riva del Mar Ionio e li vediamo davvero i morti del Meditterraneo, affiorano a galla, spettrali e dolorosi mentre una bimba innocente cerca il suo posto nel globo terrestre e, non trovandolo, lascia che il mondo e l’umanità intera scompaiano nel mare, si dissolvano, unico destino che ormai ci meritiamo, noi massa di umani più impegnati a taggare, filmare e condividere immagini che a vedere, ascoltare, pensare.

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Ma non si conclude qui la parabola di Versoterra. Dal mucchio di corpi sballottati dalle onde del mare e dalla coralità di voci e danze delle due tappe Alba e Tramonto, Perrotta fa emergere una figura di donna, come un punto su una mappa. Sulla storia di Lireta focalizza la sua attenzione e la sua necessità di racconto. Una donna albanese “non rieducabile” che lotta tutta la vita per sé e per gli altri. Perché la storia di Lireta, alla quale dà voce e corpo una straordinaria Paola Roscioli, con la complicità musicale di Laura Francaviglia alla chitarra e Samuele Riva al violoncello, non è solo il racconto di una fuga in gommone dall’Albania. È la ribellione al modello albanese che impone alle figlie femmine un matrimonio combinato. E siamo negli anni Novanta. È il non piegarsi a un padre violento e avvezzo all’alcool e a una madre fragile che ama i suoi figli ma non sa difenderli, vittima lei stessa. È il sognare l’istruzione come via di salvezza, perché è la scuola che ti dà strumenti di opposizione e consapevolezza. Privilegi che avendoli non sai apprezzare.

Lireta non cede. Mai. E adesso è una donna italiana felice, con una vita alle spalle che sembra una matrioska di tante vite. E brandisce il libro che è diventato il suo diario dopo essere stato finalista al al Premio Pieve nel 2012, come una conquista: “è il mio piccolo contributo per salvare il mondo”, dice. Ed è sì una conquista questo libro, perché, va detto, solo grazie al progetto di Perrotta, vede la luce con Terre di mezzo dopo molti rifiuti editoriali. Sceglie una storia a lieto fine per rappresentare “milioni di diari mai scritti”, Perrotta. Un lieto fine conquistato a fatica da chi sa che a non cedere mai alla fine “la malasorte si spacca”.

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Un progetto che si distingue per la forza evocatrice e trascinante della musica – pensata e arrangiata da Claudio Prima ed Emanuele Coluccia – e per la drammaturgia pungente e mai banale. Per il ribaltamento di ruoli che hanno un momento di grande impatto quando i migranti con pettorine gialle, guanti e mascherine, fanno sfilare il pubblico in mezzo a una fila di transenne davanti al Regina Pacis per rifocillarlo con caffé e pasticciotti, generi di primo conforto dopo un possibile sbarco sulle costi pugliesi. E ne hanno uno che non avevi previsto e messo a fuoco subito: qui Perrotta non è solo l’ideatore e direttore d’orchestra del progetto ma è anche parte viva della storia.

E alla fine è la vita vera che ti rimane appiccicata addosso dopo aver vissuto per tre giorni dentro la bolla di Versoterra. La vita vera. Quella di Lireta che agli applausi raggiunge Paola Roscioli sul palco e fa una dedica a chi è stato meno fortunato di lei, “quelli che non ce l’hanno fatta a traversare il mare”. La vita di Bobby e Somieh che sognavano di danzare e suonare, quella di Perrotta, che lascia la sua “amara terra” perché nel 1988, dieci anni prima del viaggio in gommone che invece porta Lireta in Puglia dall’Albania, il Salento era un luogo che sputava via i suoi artisti. E adesso questo artista piange di lacrime vive, davanti a noi, con il coraggio di esporre sé e le proprie emozioni. E noi ci alziamo in piedi e piangiamo con lui, sapendo che da ora in poi la nostra indifferenza sarà colpevole.

foto di Luigi Burroni
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VERSOTERRA – A CHI VIENE DAL MARE 
è un progetto di Mario Perrotta realizzato da Permàr e Coolclub
con il sostegno di istituzioni e partner
 
tutti i protagonisti di Versoterra
la pagina Facebook del progetto 

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Di finto solo il sugo dei bringoli

Scaluvia. Può accadere anche a Ferragosto. Evento inatteso e straordinario, la neve in piena estate. Un po’ come la sinistra che perde una delle sue roccaforti dopo settant’anni. È così che l’ultimo appuntamento di Tovaglia a quadri si staglia nella nostra memoria. Con ironia pungente e sottile, parlando di temi profondi con uno stile lieve ma non per questo meno penetrante di tante analisi politico-economico-sociali. Ci si ritrova a tavola, il pubblico trasformato in veri commensali della storica Osteria del Poggiolino di Anghiari.
Si sorride al proprio vicino sconosciuto e si sorride all’attore che si siede con noi in mezzo alla scena a consumare un piatto di ottimi Bringoli al sugo finto. Memorabili pure loro.

Ventuno edizioni che, con intelligenza e rigore, rimangono uguali a loro stesse nella formula e nella modalità narrativa. Ma anche nel menu, nell’uso di attori non professionisti, nel luogo. A cambiare ogni anno è la storia, ingrediente fondamentale, certo, ma non unico, di un’alchimia che funziona nell’insieme dei suoi componenti. Ed è proprio questo il merito più grande del prodotto culturale Tovaglia a quadri. Non cedere alle tentazioni del cambiamento, del rinnovamento, alle lusinghe del salto di qualità. Cristallizzare la memoria di chi si è: una piccola, sorniona, rivoluzione culturale che si basa sull’intramontabile fascino dell’autenticità.

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Tovaglia a quadri – edizione 2016
foto di Luigi Burroni

Un gigante dall’aspetto esile

Nel viaggio di ritorno dal Festival del Fundraising sono felice.
Come sempre. Ma un po’ più del solito.
La parola che più mi ha condizionato in questa edizione è “cambiamento”.

Partendo dalla fine sono certa che l’emozione di sentir parlare Alberto Cairo mi rimarrà appiccicata addosso a lungo. Quasi un narratore teatrale, perfetto nelle pause, nell’uso delle espressioni del corpo, nel dosare ironia e continui colpi di scena emozionali. Refrattario al cambiamento, si definisce lui, ma fautore di cambiamenti radicali nella comunità in cui opera da anni in Afghanistan.  Il suo racconto lo porta dritto nei cuori di noi ottocento che applaudiamo in piedi, a lungo, con i sensi connessi a lui.
Cose da Festival del Fundraising.

Quando è salito sul palco dopo Kumi Naidoo che ci aveva già entusiasmati spronandoci a una necessaria e non più rinviabile disobbedienza civile – non per salvare il pianeta ma noi stessi – mi pareva impossibile replicare il livello di coinvolgimento. Ma arriva Cairo, inizia a parlare e ti pare di essere al Festival solo per conoscere la sua storia e sentirla narrare da lui. Perfetta così, senza togliere e aggiungere nemmeno una vocale.

Un Festival che preme per il cambiamento.

Noi ci diciamo pronti e dobbiamo esserlo. Il cambiamento è una questione che ci riguarda per la quale vale la pena esporsi, lottare, disobbedire. Firmale una petizione importante, fare cartello per radicare la cultura del dono e trasformare la filantropia in un gesto che fa tendenza. Il cambiamento porterà le nostre organizzazioni a spiccare il volo. Io ci credo e già da prima di questa edizione.

Non riesco a parlare nel dettaglio delle sessioni che ho seguito, molte delle quali davvero interessanti e illuminanti per il mio percorso. Non riesco a parlare delle tante “pacche sulle spalle” e abbracci e incontri e sorrisi che ho ricevuto e delle tante entusiasmanti “dichiarazioni di voto” di colleghi fundraiser che mi hanno promesso il loro 2×1000 con il sorriso senza farmi sentire una stalker. 

Alberto Cairo ha frullato tutte le mie emozioni di tre giorni di Festival e troneggia solitario come un gigante dall’aspetto esile nei miei pensieri.

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